Il curriculum della felicità
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Il riso fa buon sangue” recita un antico adagio tramandato di generazione in generazione. Chissà da dove provengono i proverbi e quanta strada abbiano fatto per arrivare a noi. Persi negli anni, viene da chiedersi se chi li ha pensati abbia, anche solo per qualche istante, immaginato la sua frase usata nel futuro da un’intera popolazione. Che sensazione di immensa felicità avrebbe provato nel vedere che ciò che aveva creato non era rimasto nelle orecchie di pochi e in qualche libro ingiallito dal tempo. Chissà se  Van Gogh, avrebbe potuto vivere un’esistenza più felice sapendo che il suo nome sarebbe diventato illustre e i suoi quadri richiesti da musei e collezioni private di tutto il mondo.

La felicità è difficile da comprendere e da valutare. Se si pensa ad una definizione di felicità, verosimilmente sarà una concezione simile: uno stato di benessere soggettivo. 

Se è un qualcosa di interiore e intimo, allora misurarla risulta essere molto complicato e per calcolarla occorre limitarsi chiedendo alle persone se si sentono felici.

Lo stato della felicità è intimo e soggettivo, ciò non significa che non dipenda però da fattori esterni. 

Quante volte ci siamo detti “i soldi non fanno la felicità ma preferirei piangere in uno yacht  in Costa Azzurra che in un monolocale di Roma sud”, spostando la chiave del benessere in ciò che si ha.

Indubbiamente il benessere oggettivo ha una certa responsabilità, ma molto meno di quanto si possa pensare. Per un operaio di fabbrica vincere 100 mila euro al Superenalotto può essere una fonte di enorme felicità anche nel lungo periodo, in quanto può dare un’istruzione migliore ai propri figli e potrà portare a casa cibo e vestiti senza indebitarsi. La stessa cifra risulterà dare molta meno felicità per un top manager con uno stipendio di 250 mila euro all’anno. In quel suo caso il benessere soggettivo durerà molto meno e in breve tempo tutto sembrerà ordinario.

Il  demografo americano Richard Easterlin nel 1974 pubblicò un saggio in cui espose i risultati dei suoi studi. La felicità di una persona dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza. Secondo Easterlin il paradosso consiste nel fatto che, quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino a un certo punto, ma poi comincia a diminuire, seguendo una curva a forma di parabola con concavità verso il basso. Dopo aver accumulato un certo numero di beni, non siamo ancora soddisfatti e vogliamo sempre di più. Ci sentiamo felici dopo aver comprato un paio di scarpe nuove ma dopo qualche tempo questa sensazione di benessere svanisce e la tentazione di appagarci con un altro paio di scarpe diventa sempre più forte.

I soldi fanno la felicità? A quanto pare fino un certo tenore di vita e comunque hanno un impatto limitato.

Studi hanno dimostrato come perfino la salute abbia un impatto relativo sul nostro stato di benessere. Le malattie fanno calare la felicità nel breve periodo, ma sono una fonte di angoscia duratura solo se le condizioni delle persone peggiorano o se comportano un male debilitante. In particolare a chi gli vengono diagnosticate malattie croniche come il diabete si deprimono per un certo periodo e se la malattia non peggiora si adattano alle nuove condizioni, registrando livelli di felicità al pari delle persone sane.

La felicità quindi non dipende tanto dai soldi e nemmeno dalla salute piuttosto dal rapporto delle condizioni oggettive e soggettive.

Quando confidi in un 24 all’esame ma prendi 30, le condizioni oggettive hanno superato le tue aspettative. Lo stesso vale per quando vuoi conoscere quella persone e riesci a farlo, eguagliando così le aspettative fissate, ti senti bene. Se vai per comprare una BMW e ritorni con una Panda, il rapporto non è eguagliato e ti sentirai frustrato.

Ciò implica che quando tutto va per il verso giusto le nostre aspettative crescono e di conseguenza le condizioni oggettive possono lasciare insoddisfatti. Quando le cose invece peggiorano le nostre aspettative si riducono e siamo soddisfatti con molto meno.

Secondo gli esperti A. Weiss e T.C. Bates la felicità è determinata per il 50% da fattori genetici e modelli condizionanti familiari, solo per una piccolissima parte, circa 8%, da fattori materiali, quali finanze, status, potere e per il resto dall’atteggiamento mentale dell’individuo. 

Una grande responsabilità è quindi individuale, avendo il potere di decidere i nostri stati d’animo.

La maggior parte di noi identifica le sensazioni piacevoli come felicità e le sensazioni negative come sofferenza, attribuendo molta importanza a ciò che si sente. Di conseguenza in tutto ciò che si fa si desidera ottenere esperienze piacevoli e si cerca di evitare  il dolore.

Secondo i buddisti le nostre sensazioni sono effimere, capaci di cambiare in ogni momento come onde dell’oceano.

Essere felici significa inseguire continuamente le sensazioni piacevoli. Per il buddismo la radice della sofferenza non è il dolore o la tristezza, ma la continua, incessante e inutile ricerca di sensazioni effimere di benessere che ci portano in uno stato di costante agitazione e insoddisfazione. Proviamo piacere? Non siamo contenti, temiamo che questo possa scomparire a breve mentre desideriamo che duri per sempre e in maniera ancora più forte, vivendo così nella sofferenza tenendo la mente occupata da questo pensiero.

Quando si capisce la natura effimera delle sensazioni si smette di cercarle, vivendo con maggior autocontrollo e rilassatezza, come un uomo che per anni vive fermando tutte le onde  “buone” che arrivano alla riva, cercando di non farle dissolverle e scacciando via quelle “cattive”.

Un giorno questo uomo si siede e lascia semplicemente che le onde vadano e vengano, scoprendo una pace mai provata.

Viene in mente una storia, letta molto tempo fa, di un gattone che vide un gattino mentre rincorreva la sua coda. 

“Come mai corri dietro alla tua coda in questo modo?” Domandò il gattone.

“Ho sentito dire che la cosa migliore per un gatto è la felicità, e che la felicità è la mia coda. Ecco perché la rincorro, e quando l’avrò afferrata, avrò la felicità.” Rispose il gattino.

“Figliolo” disse il vecchio gatto “anch’io ho considerato con attenzione i problemi universali. Anch’io ho concluso che la felicità è nella mia coda, ma ho notato che, ogni volta che mi metto a rincorrerla, essa mi sfugge, mentre quando faccio altre cose, mi viene dietro ovunque io vada”.